Internet ne è “invaso”, come di immagini di belle donne, rigorosamente magre, esteticamente impeccabili, perfettamente truccate sin dalle prime ore della giornata. I nostri occhi sono globalmente attaccati da immagini che si moltiplicano alla velocità del suono e ci gettano in un mondo così tanto in movimento che finisci per aderire a delle modalità di pensiero senza che te ne accorgi. Ed ecco che il corpo comincia a diventare un problema nella misura in cui le forme soggettive non aderiscono a  quelle immagini generalizzate, quando il peso non combacia con le richieste degli altri, quando ci arrivano messaggi che ci fanno sentire inadeguati rispetto a stereotipi che non sono solo comportamentali ma soprattutto “mentali”. Lo scompenso derivante per molti giovani sta diventando qualcosa che mette in gioco il meccanismo di funzionamento di questa nostra macchina sociale: basti pensare all’inno profetico delle diete, dei sistemi restrittivi che promettono ad oltranza, al gioco perverso delle manipolazioni delle immagini con photoshop che, di fatto, vendono una realtà che di concreto ha sempre di meno.  E ci casca. Molti dei nostri giovani ci cascano.

L’incoerenza tra sistema alimentare e forme corporee finisce per diventare patologie vere e proprie coma anoressia nervosa, bulimia, sindromi da alimentazione incontrollata, obesità importanti. Ognuna, diventa una modalità patologica di entrare in rapporto con il cibo: un cibo temuto, abusato, escluso, manipolato, distrutto, odiato… un po’ come la stessa maniera che i giovani adoperano per attraversare la loro adolescenza. A volte la vita intera. Di disturbi del comportamento alimentare soffrono oltre tre milioni di giovani in Italia. E il numero non include quei soggetti non riconosciuti al sistema sanitario nazionale ma che non sono sicuramente pochi. Ci sono tra questi, giovani che cominciano un vero e proprio calvario con scelte alimentari che, all’apparenza, non preoccupano. Si può cominciare con il seguire un modello alimentare captato da internet (e di siti compiacenti ne esistono a bizzeffe!), dall'esclusione di certi cibi dal proprio piano nutritivo, dall’irrigidirsi verso la conquista di una perfetta forma fisica, magari con ore e ore di palestra o con sforzi fisici esagerati, certamente mai combinati con stili alimentari coerenti ma a questi “segnali di allarme” dei quali la società non  insegna a diffidare. Eppure, la pratica clinica insegna che molte delle anoressie più resistenti partono proprio così. In una maniera assolutamente subdola e accettata dalla cultura. “Vuole avere un bel corpo, qual è il torto?” Se non fosse che il corpo al quale si fa riferimento non esiste (e mai esisterà) e le maniere per raggiungerlo, in realtà, lo feriscono, lo ammalano, lo distruggono questo corpo! Perdere peso finisce presto per diventare un perdere senza misura: si associa ad una infinità di sensazioni psichiche che parlano di sparizione, di allontanamento dalla realtà, dalla vita, dalla gioia, dal piacere. Sottrarsi al pasto finisce per diventare preambolo ad altri tipi di sottrazione. Si comincia a divenire oggetti nelle mani degli altri, senza una volontà che si sganci da quella cocciuta che insiste sul perdere, sul dimagrire, su un peso che non sarà mai piccolo abbastanza. Si chiama anoressia. E si muore. Meno evidente, forse, ma non meno invalidante quella scelta che, sebbene non arrivi al coraggioso monito anoressico che chiude le bocche ad ogni tipo di cibo, lo ingloba voracemente per restituirlo al mondo attraverso il vomito, l’eliminazione artificiosa che, di fatto, non accetta di essere attraversata da qualcosa che possa comportare – anche qui – aumento di peso, cambiamento di forma, oltraggio all’apparenza.

E la scelta bulimica non ha riserve sul maltrattare un corpo che vorrebbe mangiare, che non cede alla volontà anoressica di non cibarsi, fino a giungere a vomitare decine di volte al giorno. Con un atto forzato che ferisce l’apparato digerente sin nel profondo. Arrendersi al cibo, lasciarsi inglobare da questo, porta la scelta verso l’obesità nella direzione di un serrato “no” alla vita. Lo stesso “no” che si circonda di grasso sino alla cancellazione delle forme corporee, ai caratteri sessuali secondari, al riconoscimento di sé. Anche in questa scelta, in gioco non c’è mai solo il cibo ma la relazione. Sì, la relazione con il mondo, un mondo del quale non ci si fida, dal quale occorre prendere distanze, fosse anche a suon di chili di troppo, di grasso, di barriera adiposa.

Anche se appare impensabile a prima vista, l’invito è a riconoscere al cibo un posto di “privilegio” che non è solo materiale ma soprattutto psicologico: non solo attraverso il cibo noi ci permettiamo di stare al mondo in virtù di quei principi nutritivi che questi rimandano, ma attraverso la fruizione dei pasti è la relazione con il mondo che viene permessa o inibita. Che ci permettiamo o che inibiamo. Non stiamo parlando, certamente di scelte dettate dalla volontà. Non bastano i moniti al mangiare per sostenere il processo di cura dall’anoressia! Non serve sottolineare quanto serva nutrirsi e quanti pericoli ci sono nel non mangiare. Queste informazioni, chi soffre di anoressia nervosa, le conosce benissimo. Solo che non ci crede. Non si fida. Non ci si fida. Magari perché la vita ha ferito proprio lì, nella fiducia, nella sicurezza proveniente dall’altro. Ecco perché affrontare un disturbo del comportamento alimentare richiede intanto una diagnosi quanto più precoce possibile e poi abbisogna dell’azione integrata di un’equipe di specialisti. Psichiatra (o neuropsichiatra quando minori), dietista o nutrizionista, psicologo. Insieme. Perché un’area di sofferenza ne coinvolge subito un’altra. Sarà perché l’essere umano è una macchina complessa e non si può segmentare! Partiamo dal riconoscerla, intanto, questa subdola malattia. I suoi segni sono troppo sintonici ai nostri stili di vita. Richiede attenzione ma non può sfuggire. Lo sguardo vigile deve venire da tutti. Nessuno escluso.