di Letizia Lampo

Dopo i casi della perdita di giovani vite per incidenti stradali che hanno caratterizzato la nostra comunità si impone una riflessione su come possa avvenire l’elaborazione del lutto e quali strategie mettere in campo

 

Perdere una persona cara è decisamente un avvenimento senza paragoni. Il confronto con la perdita, l'abbandono, la morte porta a confinarsi in territori di pensiero ed emozioni senza pari. Sebbene si cerchi conforto e si attivino tutte le possibili risorse relazionali e cognitive, per ciascun uomo ci sono angoli di esperienze che, in situazioni di lutto tanto profonde, non si riescono ad evitare.

Se poi queste perdite si confinano in particolari rapporti intimi, come può essere quello di un genitore con il proprio figlio, comprendiamo che il muro contro il quale si infrange il pensiero è costruito con materiali inattaccabili.

Al pensiero della morte, di fatto, la mente difficilmente si abitua. Come se non rientrare nelle sue corde. Il pensiero di un qualcosa che ostacola, che si frappone al desiderio di controllo tipico dell'uomo, inaccessibile alla volontà, lascia l'individuo sconfitto davanti a quel livello di realtà che piomba sulla testa senza ragione, senza rimedio. Senza alcuna possibilità di reazione. Lo è sempre. La morte ci restituisce all'incomprensibile e all'incontrollabile. Si espone come una spada che lacera lì dove si immagina continuità e futuro e lascia in una situazione di tale inaccettabilità che la mente fatica ad abbandonare.

Davanti a certe morti, l'esperienza conferma, vista la reale impossibilità ad accettare la perdita, spesso la mente impone l'attuazione di una serie di strategie al fine di non cadere in una forma di dolore insopportabile ed incompatibile con la vita.

Si vuole continuare a parlare di chi manca, si ricercano particolari, foto, oggetti ed occasioni che lo restituiscono alla vita quotidiana nella quale non si trova più. La mente non occasionalmente ritorna in quei luoghi del pensiero, rielabora i vissuti condivisi ma, stavolta, annichiliti da una assenza che spesso fa alternare sconforto e disperazione con l'illusione che "nulla sia accaduto"... sì, che nulla sia accaduto... è questo il sotto pensiero che viene coltivato nel profondo di un rapporto che finisce, strappato dal fantasma insopportabile della morte.

Integrare una mancanza rappresenta la sfida adattiva per eccellenza. È una vera e propria elaborazione che non può non passare dall'attraversamento di quel dolore che segna il vuoto della perdita. Qualcosa deve, pian piano, acquisire il significato rigenerativo di un vero e proprio spostamento affettivo: cosa abita quel luogo, cosa rimane di quella presenza, come restituire uno spazio in una quotidianità che non sarà mai più la stessa?

Si comprende come risposte generalizzabili non esistono. Esistono storie, famiglie, legami, persone che si trovano con le mani poggiate su quel muro, persone che non sono in grado di immaginare un continuo alla propria vita ma che si trovano a fare i conti con una esistenza che, con leggi inesplorabili, continua la sua strada. Si restituisce un valore ad altre relazioni? Si continua a vivere per gli altri affetti, magari un altro figlio, altri membri della famiglia? Si restituisce il senso alla propria esistenza di genitori o di fratelli in virtù di ciò che resiste all'oblio? Si riorganizza il proprio piccolo mondo per tornare a guardare attraverso lo sguardo del figlio? Posizioni di fronte ad un piano reale che marchia come inchiostro indelebile sulla pelle ma che, magari, permetterà, lo vogliamo e dobbiamo credere, aperture nuove a questa incomprensibile vita. Continuarla nonostante il dolore, abitandolo quel dolore, ritrovando nello sguardo degli altri il viso di chi non c'è più. Coraggio, si può chiamare coraggio questa necessità? Magari sì, ma si tratta di un coraggio ancorato in chissà quale angolo del proprio intimo universo. Non è facile avervi accesso. Per questo tante volte si ricorda come importante sia chiedere sostegno, aiuto, vicinanza in quei momenti in cui la mente presenterebbe silenzio ed isolamento. Nel rispetto di questi bisogni, una "mano" potrebbe restituire il riconoscimento della "normalità" di un profondo stato di dolore, la comprensibile condizione di sofferenza di un genitore nei confronti della perdita di un figlio, di colui che, nei comuni progetti di vita, non potrebbe che sopravvivere loro.

Scava nel cuore di ciascuno quella madre che cerca il figlio con lo sguardo nella stanza che lo ha accolto sin da piccolo, il padre che ha bisogno di raccogliere i "segni" del figlio accumulati nella storia narrata dagli altri come a volerlo trattenere a sé, magari ricostruendo ciò che può sentire essergli mancato, i fratelli che si lasciano alle spalle, i compagni di banco, gli amici di comitiva.

Accogliere il dolore, narrare la perdita, recuperare una dimensione vivibile di realtà, è come riaprire quella stanza abitata dal vuoto, dalla mancanza e questo, forse, in virtù di un attraversamento, che quella stanza sia in grado di illuminarsi di una luce nuova passando da tutte quelle lacrime che il cuore umano sa produrre.